Torno circa dopo due mesi al fiume. E’ estate piena. Il punto di ingresso è il ponte Corleone, famoso per essere scelto dai disperati che vogliono farla finita. Entro da un cantiere abbandonato, nel Villaggio Santa Rosalia, in una dimensione nuova e più selvaggia della precedente tappa. E’ una realtà suburbana che mi ricorda i film delle Tartarughe Ninja. Sembra anche la selva oscura di Dante, non mi stupirei se ad un tratto trovassi le fiere e poi Virgilio da qualche parte. Ma con i tempi che corrono le fiere sarebbero estinte da un pezzo e Virgilio disoccupato, quindi evito di fare troppe fantasie. La vegetazione è fitta, c’è presenza di fiori, poco cemento, acqua bassa.
Alla mia destra oltre al bar Baby Luna dovrebbe esserci il Carcere Pagliarelli, ma chiaramente dal fiume non si vede nulla, se non cielo e canneti. Trovo quasi subito un iPhone incastrato tra due rocce sott’acqua. Sicuramente è caduto dal ponte, è tutto spaccato.
L’ equipaggiamento stavolta è differente e in fase di miglioramento. Ho la muta e gli stivali, l’acqua è fredda e sicuramente prima o poi ci dovrò nuotare dentro, quindi per sicurezza porto anche il pezzo di sopra con il cappuccio. La telecamera è stata sostituita con una Canon 5D che fa sia foto che video e pesa la metà…certo se dovesse finire in acqua perderei 3000 euro di attrezzatura, ma ho con me un sacco ermetico in cui avvolgerla, che in caso di emergenza può anche galleggiare.
Questo primo tratto è, della parte cittadina, il più bello in assoluto. L’unico disturbo sono i motori delle pompe idrovore dei terreni circostanti ,che aspirano acqua tutto il tempo e fanno un rumore assordante. C’è una luce meravigliosa, sono le 8 del mattino.
Sto cominciando a capire la bellezza di questa natura stuprata e la sua infinita dignità. Percepisco l’eternità di quello che ho attorno e la mia inutile e microscopica presenza dentro di essa. Che presunzione dire “salviamo il fiume”! Quando noi non ci saremo più per chissà quale motivo, il fiume sarà ancora qua, dove è sempre stato, e si riprenderà il suo spazio nel giro di qualche decennio.
Dobbiamo piuttosto salvare noi stessi da quello che ci stiamo negando.
Nel tratto precedente al Ponte di Villagrazia incontro due pesci abbastanza grandi, segno che l’inquinamento in questo tratto è sicuramente diminuito. Sembra che da qui in poi il fiume sia più pulito, il miglioramento è notevole. I pesci sono forse due Tinche e se non sbaglio è proprio d’ estate che depongono le uova in acque basse, melmose e con fitta vegetazione. L’incontro mi riempie di gioia. Sono i primi due animali, oltre ai cani, che incontro sul percorso.
La felicità e l’entusiasmo però durano poco, l’Oreto torna ad essere un museo di rifiuti appartenenti agli ultimi vent’anni. Ecco per esempio il relitto di una Fiat Seicento vecchia, adagiato su uno scooter. La batteria del motorino, ancora integro, è in acqua e sembra spaccata, l’auto è solo uno scheletro di ferro. Non riesco a immaginare da dove abbiano fatto cadere questi mezzi. Sicuramente è avvenuto molti anni fa. Le ripide discese di fango sugli argini non presentano solchi e la vegetazione è più che decennale a giudicare dai tronchi degli alberi. Forse è più plausibile che siano stati trascinati da una piena e che siano caduti più a monte, magari l’auto è volata giù dal ponte di Villagrazia.
Più avanti, passata una grossa frana di fango, in bilico proprio accanto al fiume, finisco sott’acqua ingannato dal fondale che va giù all’improvviso. Arranco per un paio di metri con il pensiero allo zaino che porto in spalla e alla Canon che galleggia via nella sacca di silicone. Per fortuna la corrente è quasi assente e afferro la roba prima che si incastri da qualche parte. E’ la prima volta che nuoto nell’ Oreto, e la cosa non è che mi sia piaciuta tanto.
Tra Villagrazia e Aquino gli scarichi nel fiume diventano sempre più fitti e mi ritrovo a camminare nella fogna di un intera zona di villeggiatura. Sono letteralmente nella merda. Ogni passo diventa difficile, la melma mi si appiccica agli stivali di gomma e sommergendoli li trattiene con forza. Muovere ogni passo è faticoso e l’odore che viene a galla ogni volta che sollevo un piede, smuovendo gli orridi strati più profondi, mi dà la nausea. Grosse bolle di gas e acqua nera risalgono velocemente in superficie ed esplodendo liberano fetori insopportabili.
Nonostante la mia muta faccia una certa resistenza a queste sostanze, sono certo che la mia pelle in un modo o nell’altro ne verrà a contatto.
Dove è più profondo proseguo con il collo fuori dall’acqua, cercando di piazzare il bastone telescopico alla buona su qualche roccia e portando lo zaino con la telecamera sulla testa.
Guardo i pochi villini in zona con ribrezzo. Mi fa schifo chi li ha costruiti, mi faccio schifo io stesso che sto camminando nella merda della gente.
E’ solo un momento di particolare tristezza e scoramento, mi sento piccolo e impotente davanti alla negligenza dei miei stessi concittadini. Questo mi distacca parecchio da loro, perchè non sapranno mai cosa sto passando e, soprattutto, non capiranno mai come hanno ridotto il fiume. E se già sanno dovrebbero vergognarsi, reagire…ma di questi tempi è inutile anche immaginarle certe cose. Mi ritorna la speranza, c’è ancora tanta strada. Forza, tiriamoci via da questo schifo e andiamo avanti!
Riesco appena a intravedere le case intorno, nel fiume non sai mai cosa hai intorno. E’ un mondo sommerso qualche metro sotto la dignità dell’uomo, il resto non ti è dato saperlo. Eppure quanta amicizia mi sta dimostrando questo timido corso d’acqua!
Dopo circa 12 km non ho mai incontrato uno sbarramento insormontabile, nessun pericolo eccessivo. L’Oreto mi sta chiedendo di compiere la mia esplorazione, lo sento. Lo percepisco dalle note emesse dai sassi mossi dalla corrente sotto le cascatelle, sembrano il monologo di una donna che parla con voce chiara e decisa.
Talvolta è tanto chiara la percezione di quella voce che ho l’illusione di essere vicino a una casa con la televisione accesa.
Ci metto un bel po’ a capire che non è che la suggestione e la stanchezza.
Appare improvvisamente qualche ranocchia, che salta in acqua disturbata dal mio passaggio.
Poi mi soffermo un attimo e noto sul fondo una sagoma a me familiare. Una tartaruga! Identica a quelle tropicali che aveva mia nonna nell’acquario, di certo non una specie autoctona. Con tutta probabilità l’animaletto, di una ventina di centimetri di lunghezza, è stato gettato nel fiume e, voracissimo come è noto, sarà riuscito a sopravvivere di rifiuti e larve nonché mangiando qualche girino.
Ci guardiamo per qualche minuto incuriositi. Poi, mentre cerco di prendere la telecamera, scappa via in una nuvoletta di melma.
Se ne fanno di incontri strani nell’ Oreto! Facendo una ricerca al mio rientrò avrò conferma che le striature arancioni sulla testa della tartaruga e la forma del guscio sono sicuramente di una tartaruga americana da acquario.
Arrivo in prossimità del Ponte Parco, dal quale dovrò uscire perchè sono già le 17. Non posso continuare perchè il prossimo punto di uscita è lontano parecchie ore di cammino e sto per infilarmi in una gola della quale non so nulla se non che ci passa il fiume (sebbene si intraveda a mala pena dalle foto su Google Earth).
Mentre cammino tra le rocce comincio a soffrire la sete. Ha fatto caldo e ho bevuto tutta la mia acqua nelle ultime due ore. Il fondale scende e sono costretto a deviare uscendo dall’acqua su un gradino dal quale parte una muraglia. Mi appiattisco quindi contro il muro di pietra, alto una decina di metri, che fa da argine al fiume. Sopra di esso scorgo la ringhiera di una grossa villa giallastra che intravedo appena. Decido di proseguire appoggiato alla parete, tenendomi in equilibrio su una sporgenza di cemento larga solo qualche centimetro, sfruttando come appigli delle fessure rettangolari nella pietra che appaiono regolarmente ogni tre metri circa. L’acqua sotto di me è putrida e non ho la minima intenzione di nuotarci dentro. Niente di strano che sia contaminata dagli scarichi della villa. Mi tengo in equilibrio sperando che il muretto, su cui mi tengo sulle punte dei piedi, non si ritiri ancora. Finalmente il letto del fiume torna ad affiorare con grossi massi.
Ad un tratto sento una voce “senta!”, alzo lo sguardo e vedo un vecchietto affacciato dalla ringhiera che mi osserva perplesso e aggiunge “…ma lei a chi sta cercando?”.
Ma che razza di domanda! Certo, bisogna rispondere qualcosa. “Sto cercando la Fontana Lupo, sa dov’è?”. Classica informazione di gente che non si muove mai se non in auto “ eh ma…c’è un sacco di strada, sarà almeno un chilometro! Ma perchè cammina dentro all’ acqua? C’è la strada!”. Non ho molta voglia di parlare con quel tizio e taglio corto “sto facendo uno studio per l’università, mi darebbe una bottiglia d’acqua per favore che sono rimasto senza?”. Il vecchio ci pensa un paio di secondi e poi sparisce.
Non sapendo se aspettare o meno, proseguo qualche metro più avanti e mi siedo su un masso comodo. Riappare il tizio con una bottiglia in mano, me la lancia, ringrazio e lo saluto. Di certo non mi avrebbe fatto mai salire sulla strada passando da casa sua, quindi continuo in acqua verso il ponte. Fino a qua ho interagito solo con tre persone che abitano in case in riva al fiume. Uno mi ha ignorato, uno mi ha risposto “Se vuoi uscire, devi tornare da dove sei venuto!”, e questo qua, che più o meno mi ha comunicato lo stesso messaggio. Dopo altre due anse, su un percorso abbastanza facile, arrivo a destinazione. Il problema ora è uscire perchè sotto il ponte il fondale scende parecchio e l’acqua è quasi ferma e puzzolente, ma soprattuto non vedo scale per salire in strada. Identifico un paio di punti più accessibili. C’è da infilarsi in due terreni privati: uno da evitare perchè mi vedrebbero sicuramente dalle case e l’altro un po’ più riparato, sorvegliato però da cani da guardia che abbaiano.
Se proprio devo scegliere scelgo i cani. Faccio un paio di tentativi per tirarmi via dall’acqua, invano.Sulle sponde è pieno di sterpaglie, insetti, lattine e cartacce, non si vede neanche la base dell’arco di pietra. Riesco, a colpi di machete, a tirarmi fuori da un groviglio di piante secche e sbuco finalmente in un giardino proprio sotto il punto più basso del ponte. Sono in un terreno coltivato a fichi e c’è una casa con un motorino parcheggiato a poche decine di metri, i cani non si vedono, sono vicini, ma se fossero liberi sarebbero qua da un pezzo. Sicuramente mi hanno sentito mentre ero ancora in acqua e abbaieranno fino a quando non sarò lontano.Un buon motivo per levarsi dai piedi al più presto ed evitare discussioni. Appoggiata a un albero di fichi c’è una vecchia scaletta in legno tutta mangiata dai tarli. Ci penso qualche minuto per prenderla, se mi scoprissero mentre salgo, con la muta e il machete addosso, potrebbero pensare che ho appena fatto qualche danno a casa loro e stia scappando. Inoltre la condizione della scaletta e il terreno in pendenza non mi sembrano ideali in quanto a sicurezza. Ma quand’è l’ultima volta che ho lavorato seguendo la legge 626?
Chiaramente è l’unica soluzione e bisogna tentare. A giudicare dai fichi ormai marci per terra, questa scala è stata usata l’ultima volta un bel po’ di tempo fa. La tiro via dall’alberello e la appoggio al ponte. Metto un sasso sotto il lato più in pendenza per dare stabilità ed evitare di cadere malamente tra le frasche. Salgo tra gli scricchiolii del legno, la scala oscilla un pò, ma regge benissimo. Ecco finalmente il muretto e la strada. Rientrerò da qua la prossima volta. Salendo per Altofonte la pendenza aumenta e il fiume di conseguenza fa saltelli d’acqua sempre più pronunciati fino a vere e proprie cascate di 3-4 metri. Mi dovrò attrezzare meglio.
Al ponte mi viene a recuperare un amico con la macchina, la sera stessa la sua ragazza gli chiederà “ma perchè sto sedile puzza di fogna?”