Rientro in acqua nel mese di Aprile del 2011. Una brutta frattura trimalleolare scomposta alla gamba destra, durante un banale allenamento di pallamano, mi ha costretto a un recupero di quasi sei mesi tra operazione, fisioterapia e palestra.
In quest’ultima fase, il lavoro costante e severo dell’amico massoterapista-chinesiologo Lorenzo Padalino della palestra Divina di Palermo, mi ha fatto recuperare quasi completamente il tono muscolare e l’equilibrio. Mi ha fatto buttare sangue, ma è servito. Durante le sofferenze e le sedute quotidiane, il pensiero di tornare nel fiume è stato l’unico punto fisso all’orizzonte al quale guardare per guarire in fretta e bene.
Del resto, pensavo, Lance Armstrong è tornato a correre e vincere dopo un cancro tremendo…perchè mi dovrei lamentare delle viti nella caviglia?
Con l’emozione di chi torna a camminare dopo tanti mesi, entro nell’Oreto in una mattina fredda e grigia. L’odore di fogna e merda tipico del fiume mi fa capire di essere tornato in un luogo a me molto familiare.
Questa sarà la tappa della fine della risalita vera e propria e mi porterà non alle sorgenti, sul quale c’è da fare un discorso più articolato, ma nel punto esatto in cui le acque che sgorgano dal terreno si uniscono in un unico fiume.
Il bacino idrografico dell’Oreto ( 130 kmq circa) è infatti un sistema complesso di vari rigagnoli e torrentelli che, come piccoli capillari, confluiscono verso un unico letto più grande che convoglia le acque fino al mare.
Da Fontana Lupo e dal torrente di Altofonte “canale delle acque del Parco”, che ho già superato nelle scorse due tappe, arriva di certo un discreto contributo di acqua, ma le due principali “strade” che danno vita a quello che poi vediamo scorrere sotto il ponte Filicino nella valle sotto Altofonte, sono il Sant’Elia che scende da Pioppo, e un altro torrente sul quale sto cercando notizie più concrete, ma che dovrebbe essere il Torrente Barone. L’incontro avverrebbe sotto il piccolo rilievo collinare chiamato Cozzo Meccini. Presto avrò comunque delle mappe più attendibili. Per le sorgenti più alte del fiume bisognerebbe risalire quindi questi due corsi minori, ma poichè non vale la teoria del “serpente con la coda più lunga” è inutile inseguire l’affluente che nasce più lontano, poichè la mia non è la risalita di un intero bacino idrografico, ma di un singolo fiume. Per la cronaca, ufficialmente (fonti Wikipedia) le sorgenti principali sono: Api, Alloro a Vigna d’Api, Villa Renda, Santa Maria e Fontana Lupo e i principali affluenti il Torrente dei Greci, il Vallone Piano di Maglio e il Vallone della Monaca.
Durante questa tappa attraverso un certo dislivello, evidenziato da altre belle cascatelle e da una in particolare, l’ultima a partire dalla foce, alta più o meno 4 metri.
Tutta la risalita finale è caratterizzata da un ambiente piuttosto selvaggio, ma purtroppo sempre inquinato. La presenza di “torte di schiuma” alte anche 20 cm, nelle piccole insenature lungo le rive, è un segnale chiaro di come fertilizzanti e scarichi domestici provenienti da Pioppo e dalle contrade adiacenti, inquinino tutto il tratto del fiume fino ai comuni di Altofonte e Monreale che ci mettono poi “il carico”.
Trovo addirittura delle siringhe abbandonate in mezzo a un cespuglio di rovi che raggiungo dopo ore di cammino e di machete. E’ possibile che siano arrivate con qualche ondata di piena o che siano state lasciate da qualcuno che, giunto chissà quando da una strada o da una villa nei dintorni, evidentemente in un periodo in cui la vegetazione era meno fitta, si sia fatto di roba lasciando tutto il necessario per terra. Ancora una volta devo sbracciarmi con il machete per aprirmi un passaggio ed evitare di nuotare nei laghetti puzzolenti nei quali galleggiano bottiglie e pezzi di polistirolo.
La mia caviglia è ancora sensibile alle storte e le rocce sono più scivolose del solito, quindi devo fare il triplo dell’attenzione. Ho ancora vivo in corpo il ricordo dei dolori dei due giorni dopo l’operazione e non ho molta voglia di tornare in ospedale.
Eppure cado di frequente come un cetriolo tra le rocce, ammaccandomi qua e là come non avevo fatto mai durante le altre tappe.
Chissà come mai in questo periodo (o in questa zona, non saprei a cosa attribuire il problema) le rocce sono così viscide che sembra di pattinare sul ghiaccio.
Un paio di volte cado all’indietro sui massi bagnati, con la gamba destra incastrata pericolosamente in posizione innaturale, ma a parte qualche dolore articolare provvisorio non succede nulla. Questo mi incita a continuare.
Lo sblocco mentale definitivo arriva nella parte più delicata. Il superamento della cascata a qualche centinaio di metri dall’ Acqua Park.
E’ uno spettacolo bellissimo, la roccia è calcarea e chiara, l’acqua viene giù abbondante. Forse il salto non è più di quattro metri, ma la parete da scalare è un pò più alta. La base è viscida e nella fessurona centrale che sale dal basso fino alla “cima” la roccia è un pò “rotta”. Avrei potuto cercare altre strade per vedere l’Oreto, ma la scelta di risalirlo camminando nelle sue acque mi impone anche di scegliere la via più diretta in caso di ostacoli del genere, nei limiti delle mie forze.
Non sarà che un blocco di quarto/quinto grado al massimo, ma per la mia preparazione in materia, l’assenza di sicura, e una cascata che mi scorre sotto i piedi è un momento delicato. Psicologicamente è il primo “esame” dopo la riabilitazione. Recupero il canottino fino alla base della parete assicurandolo con una cima alla cintura, sistemo il bastone nell’insenatura davanti alla mia faccia per poter mantenere le mani libere e cercare appigli. Gli appoggi sono due buoni terrazzini in cui mettere mezzo piede, si prosegue poi con altri due passi facili e ben ammanigliati, poi però bisogna scavalcare la “pancia” che viene in fuori. Qua si è già a una seconda/terza rinviata, facendo il paragone con un monotiro da falesia, e bisogna stare attenti. Riesco a uscire un piede dalla fessura e a metterlo in aderenza con lo stivale bagnato che ovviamente non tiene. Consapevole di avere la tecnica di un tricheco cerco di ricordarmi qualche trucco per scavalcare la pancia sulla quale sono ormai spalmato, e finalmente trovo una sporgenza che può tenere il mio peso mentre spingo con la punta del piede destro e posso cercare con la mano sinistra i sicuri maniglioni sotto delle erbacce.
Finalmente, usando forse un pò troppo le braccia per la foga, riesco a tirarmi su. Urlo di gioia. Nel trailer si vede bene la cascata e la soggettiva. Il video integrale si vedrà nel documentario. Faccio le mie riprese, mi godo il momento, poi rimetto lo zaino in spalla, recupero il canottino e riparto.
Pian piano il dislivello diminuisce e, alle mie spalle, appare nitido rilievo della Moarda di Altofonte. Ripercorro con la mente tutte le tappe e tutti i momenti più belli della risalita, pochi in realtà. Se ci penso bene ho nuotato più nella merda che nell’acqua e credo che la questione si risolverà solo quando l’uomo si farà da parte, probabilmente annientato dalle sue stesse diavolerie, in un futuro non troppo lontano.
L’unico pensiero che mi rasserena è proprio che l’ Oreto sarà ancora qua quando noi non ci saremo più e in breve tempo si riprenderà i suoi spazi ripulendosi dalle nostre tracce.
Nella sua arroganza l’uomo è convinto di poter controllare, contaminare e poi pretendere di salvare gli elementi, senza considerare che fiumi, mari e montagne sono entità eterne e il più grande crimine che si può commettere è stare al mondo senza ammirarle, ignorando la loro potenza e sottovalutandone la severità.
Scorgo delle case sulla collina alla mia destra, sembra ci sia un residence. Credo che Pioppo sia vicino. Le immagini satellitari che ho visto online mostrano un paese addossato alla montagna alla destra del fiume, dovrebbe essere proprio Pioppo o la contrada Fiumelato.
Ecco quindi un bivio. Il fiume si spezza inequivocabilmente in due tronconi, a sinistra verso La Montagnola e a destra verso Pioppo e Pezzingoli.
Prendo a destra, ma rimango nel dubbio. Considerate le dimensioni di questi due torrentelli il fiume Oreto è appena terminato, o meglio è qua che prende il nome Oreto e soprattutto diventa un fiume. Il torrentello che imbocco passa sotto il parcheggio dell’ Acqua Park ed è un ricettacolo di zanzare e immondizie. Passo sotto un ponte alto di pietra. Alla mia destra, da una stalla esce un cavallo bianco stupendo. Ci guardiamo a lungo incuriositi.
Poi il cavallo si avvicina, rimane un attimo ancora come per salutarmi e sparisce dietro una baracca in lamiera. Continuo a camminare verso un altro ponte più piccolo. L’acqua è nera in certi tratti, come nel tremendo pezzo di Villagrazia, sono stufo devo uscire.
Trovo il ponticello di pietra dal quale si affaccia l’amico Giuseppe Battaglia che ancora una volta mi è venuto a recuperare. Uscire dal torrentello è abbastanza complicato. Devo risalire una sponda usata come discarica e spostare una serie di cartoni bagnati e una rete matrimoniale piuttosto pesante che è messa in bilico su delle latte arrugginite. Si avvicinano i soliti curiosi “ma lei che sta cercando?”, e io “niente sto facendo un reportage sul fiume Oreto”, e quelli “qua è Fiumelato comunque…si in effetti è tutto sporco sto fiume dovrebbero pulirlo!”.
La solita lamentela dei locali che mi dà la nausea. Ma chi pensate che le abbia buttate quelle cose nel torrente? Quando sento la filastrocca del “potrebbe essere un paradiso, ma è una discarica” ormai ho i brividi di freddo. Si dice che i poveri villeggianti sul fiume si lamentino dello stato delle acque, ma io sono testimone che gran parte di loro, non solo usa l’acqua dell’Oreto per irrigare i campi, ma ci scarica anche dentro abusivamente. Funziona così: io aspiro l’acqua con una idrovora e la spruzzo nei miei frutteti, e venti metri dopo piazzo lo scarico del mio bagno, così faccio un “lavoro pulito”.
Più a valle fa così anche il mio vicino che però nei campi butta l’acqua della mia fogna e scarica poi la sua più in giù…e così via.
Chissà quindi, dato che la frutta di quei campi viene poi venduta o utilizzata per consumo domestico, quante sono le persone a rischio malanni per aver ingerito alimenti altamente inquinati. E chissà l’ultimo della catena che prende l’acqua più a valle…
Si pretende che “le istituzioni” ci salvino dalla nostra stessa criminosa stupidità e c’è il solito assistenzialismo che non porta a nulla, come del resto la filosofia del “perchè, che è mio??”.
Inquinare il fiume che passa sotto la propria villa per risolvere velocemente un problema e poi aspettare che un giorno passi qualcuno a pulire tutto e a sistemare le cose è come attirare i ladri nel proprio negozio e aspettare che arrivi batman. I nostri avi si staranno rivoltando nella tomba.
Una cosa però ho capito. Che continuerò il progetto Oreto anche dopo l’uscita del video Urban Adventure e che il film sarà composto da due capitoli, il primo sull’esplorazione del fiume e il secondo sull’inchiesta e sulle responsabilità inerenti al caso. Il tutto durerà circa 60 minuti (30 a capitolo).
Non mi aspetto certo che dal mio lavoro nasca qualcosa di concreto, anche se manderò video e reportage alle autorità addette ai lavori, mettendo a loro disposizione gratuitamente il materiale da me raccolto.
Non credo neanche che la comunità palermitana vedendo il documentario, online gratuitamente sul mio sito, si preoccupi più di tanto. Qualcuno dirà “e che c’è di nuovo?”, qualcuno si indignerà, qualche altro magari aggiusterà lo scarico della sua villa, ma non cambierà nulla ugualmente.
Io ho però imparato tanto e ho avuto modo di “parlare” con il fiume, di interagire con esso, di ascoltare i suoi suoni e le sue melodie spesso simili a un lamento. Ho scoperto il mio Oreto, ho vissuto intensamente questa esperienza e ne sono felice, sebbene io sia consapevole dei rischi che si corrono a nuotare in certi ambienti malsani.
E’ vero, forse nel mondo non ci sono più terre vergini da scoprire, ma vicino casa ci sono tanti luoghi che sono stati dimenticati, nonluoghi, che dopo anni di abbandono sono irriconoscibili e vanno riscoperti per soddisfare il nostro innato senso di ignoto. Questa è la Urban Adventure.
M’è piaciuto.
lavoro davvero validissimo!
Quando ho spiegato alla mia nipotina che cos’era uno zoo, passeggiavamo nel traffico pomeridiano di via libertà in dicembre, e lei mi disse ‘voglio andarci zia’. -‘Bene’, ho risposto, ‘una volta ti ci porto’. –‘No, io voglio andarci adesso(!)’.
Da dove si comincia per spiegare a una bambina che la sua è un’idea assurda e impraticabile?.. specialmente quando ti guarda con gli occhi privi di una qualunque ombra di dubbio sul fatto che recarsi in uno zoo all’istante sia cosa ottima e molto saggia…
Per me Igor è così, mentre cerchi le parole per dirgli che risalire l’Oreto è un’originale idea immaginifica, lui è già lì, a mollo fino alle ginocchia.
In questo video ho visto immagini degne della migliore iconografia surrealista, e più acqua e gorgoglii di quanti potessi immaginare. Secondo l’insegnamento delle avanguardie contemporanee, ho trovato che anche i materiali di rifiuto e le latte blu incolonnate sull’acquitrino verdastro avessero una formalità, e oso dire una sostanza, artistica: se penso allo scheletro della cinquecento come espressione estrema della follia disperata dei palermitani.
‘Un’idea ottima e molto saggia, quella di risalire il fiume’, commenterebbero anche stavolta gli occhi color caffè di mia nipote. E io mi associo
Ho letto tutto in un solo fiato, peraltro mi ero già imbattuto nel video su Vimeo qualche settimana addietro.
Che dire…le supposizioni che ho sempre avanzato sul reale stato del fiume Oreto vengono, rigo dopo rigo, frame dopo frame, sempre più amplificate!
Anche io provo disgusto per quei “potrebbe essere un paradiso” …e anche io provo quel triste senso di impotenza quando, di fronte ad una società incivile come la nostra, avverto chiaramente di appartenere ad una minoranza sempre più sparuta…
Tempo addietro feci una esperienza similare, non umida, ma altrettanto impegnativa: Monte pellegrino per “vie alternative”, partendo dalla Favorita-rifugio del cane abbandonato/Valdesi/Santuario S. Rosalia.
Anche li il mistero delle carcasse d’auto, dei rifiuti, del degrado, arrivati da chissà dove. Forse trovo che Monte Pellegrino, per certi versi, sià ancor più sconcertante per il semplice fatto che manca “l’elemento di trasporto”, ossia l’acqua… Lo schifo, quindi, fino a quel punto gle lo porti e li gle lo lasci…!
E cosa ancor più sconcertante è che nessuno vede, nessuno dice.
Bravo Igor.