Mario decise di emigrare quando suo padre si ammalò. Per cercare un lavoro stabile e remunerativo, partì da Avellino nel 1968 all’età di 16 anni con un diploma da tornitore, sapendo solo che in Canada faceva freddo. “Portati o’ cappuot!” gli dicevano i compaesani, “Ma è agosto!” rispondeva lui, “E puortatill’ o’ stess!”.
Per fortuna Mario non portò il cappotto con sé perché ad agosto, ad Hamilton-Ontario, faceva più caldo che in Italia.
A quel tempo non c’erano tonnellate di documenti da produrre o liste di “skills” a cui appartenere per entrare a lavorare in questo Paese. Mario venne presto assunto per spazzare il pavimento in una grossa falegnameria con una paga oraria equivalente ai 20$ l’ora di oggi. Niente male per un ragazzino appena sbarcato.
Da bravo osservatore, in pochi mesi aveva già carpito le tecniche di diversi manovali che lavoravano intorno a lui.
Un giorno, durante la pausa pranzo, il gruppo di operai addetti alla pressa aveva interrotto il montaggio di un mobile appena incollato. Questo avrebbe dovuto essere assemblato per mezzo di un macchinario, la pressa appunto, che comprimeva i pezzi tra loro per alcuni minuti, rendendo efficace l’effetto della colla.
Mario sapeva bene che, lasciando il lavoro a metà, gli operai avrebbero condannato quel mobile all’inceneritore, poiché senza l’opera della pressa, la colla si sarebbe asciugata senza fare
presa e sarebbe stato uno spreco di tempo e materiali.
Allora si guardò intorno e tentò di rimediare al danno. Fece il lavoro dei tre operai bene e in meno tempo. Il proprietario, diretto anche lui alla mensa, notò quel ragazzo intento a salvare il mobile in orario di riposo e decise di nominarlo assistente tornitore, con un aumento di stipendio. Causa della promozione: la buona volontà.
Una sera mentre tornava a casa dalla scuola di inglese, vestito con i suoi abiti migliori, due farabutti lo avvicinarono credendolo ricco e cercarono di rapinarlo brandendo un coltello. Un paio di fendenti dati a casaccio costrinsero Mario a farsi scudo con le mani e il coltello lo affettò per bene.
Sporco di sangue, corse a casa dagli zii che lo ospitavano e lavò i vestiti sotto la doccia, dicendo poi di essersi tagliato con una mattonella in casa. L’episodio lo convinse a vestire come gli altri ragazzi anche per andare a scuola.
Qualche anno dopo decise di tornare in Italia. L’emigrazione era per lui “una crudeltà, che non aveva senso se non quello di migliorare la propria vita e poi tornare”. Senso di colpa per aver lasciato la famiglia in patria, ma anche solitudine e nostalgia di casa.
Un giorno fece una telefonata cercando un amico, ma il numero era sbagliato. Al posto della persona che cercava aveva risposto una ragazza sconosciuta, ma interessante.
Quella ragazza diventò sua moglie, comprò con lei una casa ed ebbero due figli. Niente rimpatrio quindi per Mario, il quale continuò a lavorare in Canada ancora per anni per crescere i figli e portarli in Italia quando possibile.
“Noi abbiamo lavorato tanto e sono fortunato che i miei figli parlino l’italiano e amino andare in Italia, perché emigrare per me è stato crudele, durissimo, ma almeno il mio amore per il nostro Paese continua con loro. Quando ci vado e scendo dall’aereo e metto piede a terra, io mi sento subito meglio, felice. Certe volte penso che non sarei mai dovuto partire”.
O forse avrebbe rimpianto di essere tornato. Emigrare è crudele ma potrebbe esserlo anche il contrario, cioè essere costretto a restare. Io credo che emigrare non sia solo sacrificio, è l’opportunità di conoscere altri luoghi e altre persone, è l’opportunità di guardare con occhi diversi la propria terra attraverso gli altri.