C’era una volta un ammasso informe di canne di bambù lasciate al sole di febbraio, a Paksè, in Laos. Erano una dozzina, un po’ storte, di circa sei metri di lunghezza. Nessuno sembrava interessato a comprarle. Anzi, il loro padrone aveva lasciato accanto a quel materiale il cartello “se interessati, chiamate questo numero”, ma se le avessero rubate di notte non si sarebbe sicuramente disturbato a denunciare il furto. Le possibilità di trovare un padrone erano anche meno di quelle di un vecchio cane al canile.
Ko, il mio “mezzo braccio” trovato a Paskè su consiglio di un amico, mi aveva spiegato che il bambù non se lo compra ormai più nessuno… ce n’è tanto nella giungla. Ovviamente, me l’ha detto dopo che avevamo già comprato tutte le dodici canne abbandonate al sole.
L’esperienza insieme a Kahn mi aveva già reso diffidente rispetto a un certo modo di fare dei locali. La seconda sera sul fiume Nam Tha, Kahn mi aveva invitato a cena da un amico in un villaggio, con tanto di sacrificio di anatra e bottiglie di whisky. Il giorno dopo, però, mi ha presentato il conto, con il sorriso. Si è anche offeso perché non gli ho più rivolto la parola fino a destinazione. Inizialmente la cosa mi ha parecchio turbato. Non c’è niente che mi deluda di più dello scoprire che il mio compagno di avventura, guida o partner, mi stia prendendo in giro. Per questo spesso vado da solo.
Ma in realtà in questo caso c’è poco da stupirsi. Io sono uno straniero, uno dei tanti “Falang”. Nella cultura Lao c’è molto “uovo oggi” e poca “gallina domani”. Perché è tutto così fugace e incerto che la stessa morte è una cosa normale. Non un tabù come per noi occidentali. Sono decenni che qua salta gente per aria mentre zappa la terra, a causa della pesante eredità delle guerre, e tuttora è facile morire di malattie o incidenti stradali. Manca la base di qualunque norma igienica e di sicurezza, sul lavoro, alla guida, ecc… Ma di questo parleremo in un altro momento e lo approfondiremo grazie alla testimonianza di chi vive in questo Paese da anni.
Si dice che la più alta forma di intelligenza stia nell’osservare senza valutare. E forse in questi casi è giusto fare così o si finisce per distrarsi dai propri obiettivi.
Comunque Ko, come Kahn, è un grande lavoratore. Si è costruito una casa in cemento armato con le sue mani. Sa fare qualunque cosa, dal pescatore al falegname, dall’architetto al macellaio. Il progetto di costruire una zattera da testare sul Mekong e navigarci sopra per qualche giorno era nato con l’amico ingegnere Franceso Belvisi, che segue il restauro della mitica Lisca Bianca, a Palermo. Gli ho detto via Skype: “Belvisi, ho delle canne di bambù e posso trovare dei bidoni, facciamo una zattera?”. E lui ha fatto i suoi disegni, rendendo la collaborazione esaltante e l’atmosfera carica di entusiasmo.
Tra le varie possibilità, la scelta è caduta sull’utilizzo di un bidone solo, avvolto dal bambù, con due camere d’aria e due bidoni da 30L per fare galleggiare meglio la nostra creatura. Su consiglio di un paio di pescatori, ho messo anche delle sponde laterali per rendere il rovesciamento praticamente impossibile. Il risultato, dopo una giornata di lavori, era una sorta di navicella spaziale di Star Wars. A occhio sembrava abbastanza solida, ma chissà se avrebbe galleggiato sul fiume. Perché di affondare nel Mekong non ne avevo per niente voglia. In questo fiume scaricano centinaia di città e paesi, industrie cinesi, cantieri thailandesi, tutte le barche e le navi passeggeri, ed è inquinato dagli stessi pescatori che vi gettano qualunque tipo di rifiuto, dalle bottiglie di plastica agli animali morti.
Il primo test sembrava miracolosamente positivo: galleggiava. Ma la struttura era esageratamente idrofrenante e impossibile da gestire. Abbiamo allora alleggerito la parte posteriore in cui avevo messo un telo di plastica a “chiudere” la poppa: la differenza, in effetti, si è subito percepita. Spuntava sempre qualcuno a guardarci lavorare, manifestando un certo, lecito, scetticismo. Sistemate quattro bottiglie di plastica sulle sponde per ridurne il rollio, mancava solo il nome. Data l’accozzaglia di roba e l’aspetto non proprio rassicurante, l’abbiamo battezzata “Munnizza dei mari”. Ma la mattina della partenza, nonostante non se ne fosse sentito un alito per settimane, si è alzato il vento…