Nello Yukon era raro avere vento da sud…mi soffiava sempre in faccia ed era sempre faticoso proseguire. Anche qua mi devo aspettare questo tipo di difficoltà? Rossana era una signora barca, agile e perfetta, Munnizza dei Mari è un esperimento fatto a distanza con un amico, ed è venuta un pò un aborto di scialuppa. Domanda lecita: reggeranno le corde? Se si aprisse in due mentre sono nel main stream? E com’è la corrente del Mekong? Sarei capace di tornare a riva a nuoto? L’acqua è calda, ma il letto larghissimo. La corrente non sembra affatto veloce, vista dalla mia sicura insenatura, ma sono troppo lontano per esserne certo. Questi sono i pensieri di uno che ha costruito una zattera con un bidone e del bambù e sta per lanciarsi da solo sul Mekong.
Proprio mentre ero intento a farmi un piano di emergenza, una pioggia di liquido nero ha iniziato a cadere nel fiume, fuoriuscendo dalla poppa della grossa chiatta ristorante accanto a me. Mr. Noe, un simpatico ragazzo di età indefinita che ha partecipato volontariamente alla “messa a punto” di Munnizza dei mari, è sbucato dal nulla dicendo “Toilet-water”. Qua funziona così, si scarica nel fiume qualunque cosa. Rispetto per l’ambiente: zero. Nei villaggi e per strada è la stessa cosa. Ci sono montagne di plastica, a volte bruciata, proprio sotto le capanne. Non siamo ancora ai livelli dell’Africa occidentale, ma non passerà molto tempo per raggiungerli.
Rispetto ai miei dubbi comunque, le scelte potenziali erano due: restare a riva a pensare a quello che sarebbe potuto accadere o andare a vedere di persona. Fondamentale però, prima di salpare, controllare ancora una volta i nodi alle giunture era d’obbligo.
In caso di onde, sarebbero state proprio le sponde laterali a impedirmi il rovesciamento. Con l’esperienza dello Yukon ho imparato a caricare la canoa nei giorni di vento, spostando un pò di peso a prua, ma Munnizza dei mari, come ogni prototipo, aveva bisogno soprattutto di spirito di improvvisazione.
Lasciato il “porto” in tarda mattinata, abbiamo puntato verso sud. Secondo quello che vedevo, il Mekong cominciava a “spingere” a una quarantina di metri dalle sponde. Idealmente mi sarei tenuto prudentemente a cavallo tra la morta e la corrente, ma il vento annullava il pigro fluire di “Munnizza dei mari” perché in questo periodo dell’anno il fiume non ha ancora il carattere che lo contraddistingue durante i monsoni. In piena stagione secca e con un letto di quasi due chilometri, non potevo chiedere alla “Madre delle acque” di portarmi chissà dove. Arrivato sotto al grande ponte, abbiamo cavalcato delle ondine, figlie dei gorghi generati dai piloni di cemento. Munnizza, solidissima, ha retto bene, ma era come guidare una grossa jeep, senza servosterzo. Nel gorgo mi era sembrato di andare fortissimo, ma ben diversa è stata la storia dove il fiume curva verso sud.
Nei profondi canyon al confine con l’Alaska, c’era sempre un ritorno di corrente all’esterno delle anse più larghe, l’avevo capito a mie spese. La corrente dello Yukon era impressionante e per uscire dalla morsa di quelle enormi masse d’acqua, io e Rossana dovevamo farci davvero il mazzo. Con il vento, tali manovre erano anche abbastanza pericolose, date le centinaia di tronchi affioranti dalle secche o sporgenti dalle isole. Ma con Munnizza dei mari, al contrario, tutto si è svolto con incredibile lentezza. Dopo ben tre ore di remate senza sosta, ero ancora a poche centinaia di metri dal ponte di Pakse. Ero in pieno ritorno di corrente, in corrispondenza di uno scarico urbano puzzolente.
Con trentasei gradi e vento contro mi sembrava davvero una follia cercare di proseguire. Ho cercato di tornare a riva per ben quaranta minuti, sono arrivato a una sorta di piccolo cantiere navale. Ero fradicio di sudore e morto di fatica.
Nel cantiere c’era un tizio che lavorava a una barca di legno, completamente imbacuccato, come se avesse l’allergia al sole, e con i piedi immersi nella melma. Scendendo a terra ho visto che non era solo fango quella melma schifosa in cui sprofondavano le gambe. Facendo un passo in avanti, si sprigionava l’inimmaginabile e mi tornava alla mente la discarica dell’ Oreto. Avevo i conati di vomito. Come mai quell’omino era lì tranquillo, immerso nella merda fino alle caviglie, a piantare i suoi chiodi? Ci si può davvero abituare a quel disastro? A pochi metri dal cantiere, c’era lo scarico di tutto il vicinato, immondizia, sacchi di plastica. E’ mai possibile che questa gente non capisca la gravità della situazione? Anche da un punto di vista estetico, avere il giardino pieno di plastica e cartacce, non è orrendo per chiunque? Pare di no.
Ho passato almeno un’ora seduto a riprendere fiato. Sporco, puzzolente, affranto dal non aver fatto strada, ma più di ogni cosa, sconcertato dal fatto di essere così lontano da casa e aver ritrovato l’Oreto. Un incubo, una sensazione di essere seduto su un mondo di plastica e melma.
Che delusione tremenda! Ero convinto di essere già fuori città, ma è bastato salire delle scale di cemento per realizzare di essere ancora in periferia. Impossibile arrivare a Champassak, 30 km a sud di Pakse, in giornata. Che fare…? Giocarsela comunque e rischiare di rimanere bloccato dal vento, in un tratto disabitato e a soli quattro giorni dalla fine del sopralluogo?
Ma non potevo arrendermi così presto. Volevo fare un altro tentativo, e dopo un’ora per riprendere fiato, con la temperatura dell’aria in calo, io e Munnizza dei mari ci abbiamo riprovato…
Nel prossimo post: una dura decisione e l’incontro di un nuovo amico.