Dal diario di viaggio di Simone
6 dicembre 2015
Il canyon attraversato dal Rio Yumurì (chiamato così perché al tempo dell’invasione spagnola gli indios si gettavano dalle sue alte pareti piuttosto che farsi ridurre in schiavitù) ci ha regalato esattamente quello che speravamo: un paesaggio in gran parte incontaminato e poco esplorato, con una biodiversità incredibile (centinaia di uccelli, serpenti, insetti di mille forme e colori) e una comunità locale che vive in armonia con la natura dell’area protetta. Chi cura il parco fa un grande lavoro: oltre a custodire l’area, cerca di mettere i campesinos nelle condizioni di lavorare e sostenersi senza interferire con il delicato equilibrio ambientale.
Tra i tanti risultati, la riscoperta del Polidonte Imperatore, un mollusco che si pensava estinto, a causa del cambiamento climatico e del fatto che gli indios se ne cibavano, e che invece adesso si può trovare di nuovo, solo qui a Yumurì, anche se gli esemplari sono ancora pochi.
In due giorni di cammino insieme a B., la guida che ha acconsentito a portarci fuori dai sentieri tracciati e dalle zone turistiche, tra guadi, fango e piccole arrampicate, ci siamo addentrati fra le alte pareti di roccia del canyon, fino a una spettacolare cascata di una dozzina di metri, a suo dire raggiunta solo da pochissima gente prima da noi. Lungo ripide vie siamo saliti in cima alla parete sud del canyon, accompagnando B. nel suo periodico censimento degli esemplari di Polidonte, fino ad ammirare il panorama dalla cima. Altra strada ancora poi, dietro a un campesino che ci ha aiutato a trovare il bambù per la zattera: non ne cresce molto, a causa della scarsa esposizione al sole delle rive del rio. La zattera ha preso forma grazie soprattutto alla manualità del campesino che a colpi di machete ha scavato i fori per far passare i traversi e legare il tutto in una struttura solidissima, di invenzione del buon B.
Dal diario di viaggio di Simone
7 dicembre 2015
Due giorni dopo, sembra tutto pronto. All’alba ci svegliamo sotto la pioggia, osserviamo nervosamente la fessura di cielo oltre le pareti di roccia per capire la provenienza della perturbazione: se stesse piovendo molto a monte, il rischio di una piena improvvisa (fenomeno frequente, come dimostrano gli enormi tronchi accatastati sulle rive) si farebbe concreto. Fortunatamente le nuvole non sono compatte e arrivano dalla direzione della foce. Mentre ancora piove, mettiamo in acqua la zattera, salutiamo B. e i campesinos, saliamo a bordo e… non galleggia!
Evidentemente abbiamo fatto male i conti e dobbiamo correre al riparo, procurandoci dei tronchi secchi (ammassati sulle rive) che aumentino la galleggiabilità della zattera: dopo un’ora e mezza di lavori febbrili il siparietto comico della falsa partenza è alle spalle e possiamo davvero partire! Galleggiamo a pelo d’acqua, ma meglio di così non si può fare e abbiamo già perso troppo tempo. Sfruttiamo le prime centinaia di metri di acque calme per trovare l’equilibrio e prendere confidenza, a colpi di bastone, con la (scarsa) manovrabilità di “Penelope”. Abbiamo chiamato così la nostra zattera, un po’ perché abbiamo l’aspetto di due naufraghi e un po’ perché, come la famosa tela della moglie di Ulisse, anche la nostra zattera andrà smontata all’arrivo, prima di arrivare alla foce dove potrebbero vederci: ci è concesso di esplorare il fiume in via del tutto eccezionale ed esclusiva e non possiamo lasciare tracce…
Dal diario di viaggio di Simone
7 dicembre 2015 – Parte III
….Quando il sole inizia a inondare di luce il canyon, il paesaggio diventa mozzafiato: alte pareti rocciose ricoperte di vegetazione dalle quali spiccano il volo gli avvoltoi fanno da cornice al letto del rio; le acque limpidissime si aprono la strada tra rocce precipitate lì chissà quando e levigate e incastrate dalle ondate di piena.
Procedere si fa subito complicatissimo e faticoso: con solo due bastoni a nostra disposizione, governare la zattera per sfuggire a ritorni di corrente, rocce, zone morte e virate indesiderate è piuttosto difficile. In assenza di mappe, le uniche informazioni che abbiamo arrivano da quello che abbiamo potuto osservare lungo il sentiero; a quanto ci risulta, nessuno si è mai avventurato su queste acque, così dobbiamo di continuo fermarci per studiare la situazione e i passaggi che ci aspettano. Spesso siamo costretti a smontare e a trascinare Penelope (che fra l’altro peserà attorno ai 200 kg) sui bassi fondali rocciosi; altre volte incontriamo rapide, stetti passaggi tra le rocce e cascatelle, che ci obbligano a fermarci e a trovare il modo per riuscire a passare senza farci male.
La zattera resiste a colpi violenti e solo qualche volta dobbiamo ricontrollare e stringere i nodi. Tra lanci di fune, sforzi per evitare che la corrente (a tratti molto forte) trascini via la zattera in maniera rovinosa, e poi imbraghi, arrampicate, calci per disincastrare Penelope e qualche colpo di fortuna che ci evita pericolosi scivoloni sulle rocce viscide, riusciamo a superare parecchi ostacoli. Tra uno e l’altro, scivoliamo a pelo d’acqua nella corrente tranquilla e portiamo avanti l’esplorazione in un ambiente incredibile, con un fascino primitivo: ci sembra così tanto di essere dentro a Jurassic Park, che da un momento all’altro ci aspettiamo di veder spuntare un Velociraptor! Arriviamo all’appuntamento con B. al “primo cruze” in perfetto orario, in tempo per smantellare (a malincuore) Penelope e per raggiungere la foce prima che faccia buio.