Dal diario di viaggio di Simone
15 dicembre 2015
Abbiamo appena concluso con successo la prima discesa del Rio Toa, nel tratto che va da “La Planta” alla foce. La Planta è un pueblo che si trova a monte delle rovine del Puente Neblina, il limite della “zona turistica” dove ci aveva fermato la polizia qualche settimana fa, impedendoci di proseguire e costringendoci a ricominciare daccapo la programmazione della spedizione. Col senno di poi è andata bene così, perché rimettendo in discussione i nostri piani alla fine abbiamo esplorato, alla maniera di The Raftmakers, anche altre zone.
Quello sul Toa è stato un vero e proprio blitz e non avremmo potuto fare altrimenti. Rispetto al primo tentativo, avevamo con noi la guida, che in una certa misura poteva garantire per noi; ma, ufficialmente, eravamo lì per un “safari” standard, un pacchetto escursionistico che prevede un giro in jeep, con qualche tappa qua e là nella zona montagnosa, non certo costruire una zattera di bambù e scendere il corso del Toa nel bel mezzo di un’area militare strategica.
La sera prima, mentre preparavamo i bagagli – amache, qualche galletta, acqua e un cambio: lo stretto indispensabile – abbiamo fatto un po’ di calcoli per decidere da dove saremmo partiti, in modo da riuscire ad arrivare a destinazione in giornata. La scelta è caduta su La Planta, appena un paio di chilometri a valle de La Perrera, dove avevamo anche un paio possibili appoggi per accamparci e costruire la zattera. Finalmente la buona sorte ci ha aiutato anche sulle rive del Toa: il campesino che abbiamo trovato a La Planta aveva già pronto il bambù e ci siamo messi al lavoro rapidamente. A mezzogiorno la “balsa” era pronta.
È bastato poco per
decidere, insieme a B., che la cosa migliore da fare sarebbe stata iniziare subito la discesa, in modo da arrivare già oltre il Puente Neblina, dove accamparsi per la notte sarebbe stato un po’ meno clandestino. Soprattutto B. sembrava preoccupato dall’idea di doverci fermare per la notte in una zona dove non avremmo nemmeno dovuto trovarci e quindi… siamo subito saltati sul nostro piccolo grande transatlantico fluviale! Circa otto metri di bambù, tenuti insieme da qualche chiodo e un po’ di corda, che galleggiavano a pelo d’acqua. La struttura era davvero pesantissima! Con un paio di pesanti pagaie artigianali e un bastone per manovrare in acque basse ci siamo messi in viaggio. Io a prua a dare propulsione, Igor in mezzo a remare e timonare nelle situazioni di acqua alta e corrente veloce e B. in coda, a spingere con l’asta e a manovrare in acque basse.
Lungo le rive selvagge e incontaminate, qua e là spuntava il tetto di qualche casa campesina e, in corrispondenza, una zattera di bambù ancorata lungo l’argine. Queste zattere sono usate da sempre, anche se la maggior parte delle volte solo per traghettare da un argine all’altro o per trasportare raccolti dalla finca al villaggio. Le finche, in questa zona protetta, sono difficilmente individuabili, perché i campesinos, in accordo con le associazioni che curano l’area, coltivano piccolissime aree sparse all’interno della foresta, per alterare il meno possibile il paesaggio.
Dal diario di viaggio di Igor
15 dicembre 2015
… Un po’ alla volta abbiamo dovuto fare pratica e scoprire i pregi e i difetti della nostra zattera. Il Toa ci ha dato parecchio da fare: è un fiume di modeste dimensioni (sebbene sia il più grande di Cuba per portata) e alterna brevi rapide a zone morte piuttosto ampie. In questo periodo dell’anno somiglia vagamente ad alcuni tratti del Klondike a fine estate: fondali spesso bassi, parecchie rocce affioranti.
Controllare la zattera, con la sua mole di quasi 300 kg, è stato parecchio difficile. Io ero al timone e, un po’ perché la mia “pagaia” era in realtà un mezzo remo da barca di circa 4 kg (bagnato), e un po’ perché B., addetto alla “bara” (bastone per spingere la zattera in caso di fondale basso), puntava in direzione opposta al timone, ci sono stati inizialmente un paio di malintesi che ci sono costati delle entrate in corrente da dimenticare. Poi, un paio di rapide imboccate alla perfezione, con virate rapide per controllare l’uscita nell’ansa successiva, ci hanno dato soddisfazione e coraggio. Piano piano anche Simone, alla prima esperienza su un fiume più grande, ha capito bene come aiutare a dar “pancia alla corrente” e ad aiutare con la progressione. Ha fatto anche delle buone riprese da prua e, forte dell’esperienza sullo Yumurì, ha affrontato i problemi successivi con freddezza.
La progressione il più delle volte era lenta, ma il paesaggio ripagava gli sforzi… e le facce stupite dei campesinos che ci vedevano passare ci facevano sentire dei un po’ dei pionieri. «Da dove venite?», chiedevano. «La Planta» rispondevamo. «Oh mi madre, que locos!!!» era il commento più comune. Sembravamo dei cercatori d’oro, tutti fradici, con equipaggiamento improponibile, niente tecnologia al seguito, solo improvvisazione basata sull’esperienza e concentrazione massima per leggere l’ambiente circostante.
Certo, senza B., che aveva un passato di pescatore di gamberetti nel fiume, non ci saremmo potuti fiondare alla cieca. Anche perché le insidie, su un fiume, sono sempre improvvise: quando già ci sentivamo abbastanza sicuri, all’uscita di una rapida abbiamo rischiato l’incidente. La zattera aveva preso velocità ed era lanciata verso le sponde, ma un grosso masso sommerso si trovava giusto in traiettoria nella nostra linea d’acqua. Non esattamente lo scenario migliore. Provando a evitare l’ostacolo ci siamo piantati di prua sulla sponda mentre la corrente spingeva violentemente la zattera di traverso, fino a bloccare la poppa contro il masso.
Simone e B. si sono lanciati in acqua e si sono spostati a prua per sollevarla, mentre io provavo a dare strattoni alla poppa per agevolare il loro lavoro. Ma l’unico modo era sbloccare la parte che premeva sulla sponda e, tra una coltellata agli arbusti e un paio di spintoni, B. è riuscito a facilitare il distacco, mentre io e Simone, parzialmente immersi in acqua, spingevamo l’accozzaglia di bambù verso la corrente. L’incidente ha provocato un leggero scostamento della canna più esterna ed è stato necessario ricalibrare da zero l’equilibrio dei carichi a bordo. Un altro paio di volte ci siamo rovesciati e fino a quando non abbiamo ritrovato l’assetto giusto pareva di stare sulla schiena di un toro. Le acque si sono poi calmate, anche troppo. La fatica della progressione senza corrente ci ha fatto rimpiangere il ballo sulle rapide. I remi erano pesanti e l’acqua troppo profonda per permettere a B. di aiutarci.